mercoledì 27 gennaio 2010

La giornata della memoria

Fino a oggi non avevo ancora mai  pubblicato  foto di  Auschwitz.
Mi sembrava un'operazione scorretta, da paparazzo di bassa lega alla ricerca di scoop. Oggi che è il giorno della memoria  ho cambiato idea,  e  mi sono convinta che sia invece opportuno renderle pubbliche perchè anche un  blog  che di solito si occupa di  inconsistenti amenità  può portare il suo modesto  contributo.



Non voglio titillare il vouyerismo di nessuno e non metterò le fotografie più impressionanti, preferisco mostrare le foto della zona  in cui il lager appare simile ad  un  ordinato villaggio di campagna perché é fondamentale  che tutti teniamo sempre  bene a mente che il Male ama nascondersi  dietro  una faccia rispettabile











Di libri sull'argomento  ce ne sono a migliaia  ma ne vorrei segnalare  un paio che mi hanno aiutata a capire e forse a qualcuno potrebbero essere sfuggiti

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PERCHE' NON SEI VENUTA PRIMA DELLA GUERRA, di Lizzie Doron, regalo di una cara amica a cui non dirò mai abbastanza grazie

e
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ESSERE SENZA DESTINO, di Imre Kerstez






martedì 26 gennaio 2010

Di banche, di regolamenti edilizi e di giovani architetti che hanno fatto carriera.

La pagina che vedete qui sopra appartiene ad un libro di cui ho già parlato. Mi è tornato in mente  perchè  spiegando come costruirsi da soli una bella poltrona in cartone pressato il libro cita un giovane architetto californiano che a detta degli autori  pare dotato di una  buona  creatività.
Bisogna riconoscere che  non avevano preso cantonate, il giovane architetto californiano ha fatto  proprio una bella carriera e oggi il suo nome è conosciuto in tutto il mondo,  anche da chi non si è mai sognato neanche lontanamente di farsi in casa una   poltrona in fibra ondulata. Parliamo di  Frank Gehry,   progettista non solo dello strafamoso  museo Guggenheim di Bilbao ma anche di molte altre architetture sparse qua e là per il mondo. Correggo. Una cantonata l'hanno presa: Gehry non è californiano per niente, visto che nasce a Toronto. (A meno che all'epoca del  libro Toronto non fosse in California.....) e dopo questa patetica  battuta torniamo ad essere seri
 A Berlino una Banca gli ha dato incarico di restaurare la sua sede. Una sede molto  prestigiosa al numero 3 di  Pariser Platz, a due passi dalla Porta di Brandeburgo. Come dire il cuore del cuore della nuova  Berlino riunificata.



Ma c'è un ma: il  regolamento edilizio nella zona è rigidissimo e  le facciate possono essere  realizzate soltanto in pietra,  le finestre devono essere soltanto verticali e  vetrate al massimo per il 49 per cento della superficie della facciata, sono ammesse soltanto linee rette e  geometria rigorosa. Quanto di più distante dalla architettura di Gehry. Il quale accetta l'incarico senza fare una piega, si adegua alla normativa ferrea e  progetta l'edificio  qui sotto.




Ma visto che  il regolamento edilizio può dettare  legge soltanto sull'aspetto esterno dei fabbricati e  non può permettersi di mettere il  becco su quello che succede dentro, il Nostro  si prende beffardamente una bella   rivincita progettando la corte interna, dove realizza questo inquietante coacervo di  linee curve e  bagliori metallici  che ricordano  una mostruosa bocca spalancata  dalla quale ti aspetti da un momento all'altro di veder uscire un esercito di alieni in assetto da guerra
















mercoledì 20 gennaio 2010

Emilio Salgari


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......Era questo un salotto alquanto vasto, colle pareti sepolte sotto pesanti tessuti di broccatello, di velluto cremisi e di sete di Francia, qua e là sgualciti, macchiati e rattoppati, e col terreno coperto da morbidi tappeti di Persia, sfolgoranti d'oro e di colori.
Nel mezzo faceva bella mostra un tavolo intarsiato d'ebano e fregiato d'argento, destinato forse un tempo, a qualche sfondolato riccone delle Filippine, e tutto ingombro di bottiglie e di calici del più puro cristallo di Venezia. Addossati agli angoli, grandi scaffali ……. riboccanti di anelli d'oro, di arredi sacri contorti o schiacciati, di vasi di metallo prezioso, di perle e di cumuli di diamanti e di brillanti mescolati assieme, scintillanti come tanti soli, sotto i riflessi della gran lampada dorata sospesa al soffitto.
In un canto un divano turco, non meno ricco per dorature e sculture, colle frange strappate e le stoffe infangate e spesso insanguinate; in un altro un armonium incrostato d'oro, colla tastiera di avorio…. e per ogni dove, ammonticchiati alla rinfusa, ricchi costumi, quadri dalle tele screpolate, dovuti forse a celebri pennelli, tappeti arrotolati, lampade rovesciate, bottiglie ritte o capovolte, porcellane infrante, moschetti indiani rabescati, brunite carabine, tromboni di Spagna, e spade, scimitarre, scuri, piccozze e pugnali…..

il salotto in cui ha dato il meglio di sé un arredatore che la sera prima aveva mangiato pesante, è il salotto di Sandokan, il pirata della Malesia nato dalla fantasia inesauribile di Emilio Salgàri.
Salgàri con l’accento sulla seconda A,  anche se per quelli della mia generazione poche storie, lui resterà sempre e solo Sàlgari. Emilio Sàlgari.
Nato a Verona da una famiglia di commercianti e iscritto all’Istituto Nautico di Venezia, non arriverà mai alla licenza e la sua unica esperienza come capitano di lungo corso resterà il viaggio lungo le coste dell’Adriatico a bordo di un mercantile, in qualità di passeggero.
In compenso, scrive. Non soffre della sindrome della pagina bianca, affastella pagine su pagine in cui descrive le avventure mirabolanti  che la vita quotidiana gli nega e in meno di una trentina di anni porterà a termine un’ottantina di romanzi e chi sa quanti racconti. Il successo di pubblico è grande anche se i critici lo ignoreranno sempre, ma tanto è fortunato come scrittore quanto disgraziato è nella vita, funestata molto presto dal suicidio del padre. Sarà difficile anche il matrimonio con la amata ma fragile Aida che finirà internata in manicomio. Incapace di amministrarsi, nonostante i successi editoriali Salgari  vive costantemente  oberato dai debiti, per pagare i quali diventa preda di editori sciacalli che pretendono che scriva ancora e ancora e ancora. Dopo il tracollo nervoso della moglie tenta il suicidio una prima volta, ma viene salvato. il 25 aprile 1911 ci riprova, e stavolta ci  riesce.
Lascia   tre lettere: ai figli, agli editori e  ai direttori dei giornali torinesi.

"Ai miei editori: A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dato pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.- Emilio Salgari

Anche due dei  suoi quattro figli  si toglieranno la vita negli anni successivi.
Eppure, di tutte le sventure tremende che gli sono toccate in sorte nulla trapela nei suoi libri di avventure su cui hanno fantasticato generazioni di dodicenni.
Chi volesse  farsi  una bella lettura  ripasso potrà trovare qualcosa qui 
chi desiderasse versare una lacrima di nostalgia sul  Sandokan televisivo può rivolgersi   qui   
Emilio Sàlgari, che visse, come dice l'iscrizione,  in onorata povertà in questa casa di corso Casale.











lunedì 18 gennaio 2010

wienerschnitzel





Va bene che eravamo a Berlino e non a Vienna, ma  anche a Berlino occorre esser prudenti:    non mangiare nemmeno  una wienerschnitzel può venir considerato poco meno che un sacrilegio.
E  noi che non possiamo assolutamente rischiare di passare per sacrileghi  siamo andati in pellegrinaggio a Keruzberg al ristorante  Markthalle, cioè la mecca della wienerschnitzel, il posto in cui a detta dei berlinesi doc, che se ne intendono, viene servita la migliore cotoletta panata di tutta la città.


Il posto è esattamente come anche chi non ha mai messo piede in Germania  si immagina che sia un ristorante tedesco: tanto  legno scuro e  un grande bancone  ideale per  robuste libagioni  di birra. Un po' chiassoso e iperaffollato ma gradevole


Le   cotolette erano cotte alla perfezione, croccanti di fuori e morbide dentro e in barba alla frittura si sono dimostrate anche altamente  digeribili, come recitava il blog di  una mia amica.


Porzioni enormi, a noi tutti (tranne uno) è stato  ampiamente sufficiente il piatto per bambini



Four Seasons Hotel a Manhattan

Tra i mille progetti curati da Ieoh Ming Pei, di cui nel post precedente abbiamo visto il Deutsches Historisches Museum, c'è anche la sistemazione interna del Four Seasons Hotel a New York.




E qui occorre una doverosa precisazione: di solito non mi passa mica per la testa di andare a scannucciare dentro agli hotel di lusso, ma ogni tanto la fida Rough Guide fornisce informazioni a cui è difficile restare indifferenti e allora l'imperativo categorico diventa andare a controllare con i propri occhi.  Lo avevo fatto già per il Waldorf Astoria e posso garantire che in quel caso la guida non aveva scritto bugie: nelle toilettes delle signore ci sono veramente specchi dorati e caminetti accesi. La specchiera la potete vedere  bene ma sul fuoco acceso dovete credermi sulla parola, appena ho tirato fuori la macchina foto le due cameriere si sono messe in posa proprio lì davanti.



Ma torniamo al Four Seasons, che nonostante la nobile paternità non mi ha entusiasmata.





Tutto bello, per carità, materiali costosi e grande opulenza,  ogni ambiente  curato fin nei minimi dettagli, ma alla fine stringi stringi non è altro che   un  albergo di lusso   di   un'eleganza molto americana,   esageratamente levigata   e parecchio  prevedibile. Un posto pensato e realizzato espressamente  per  piacere alle ricche botox girls newyorkesi, le quali infatti, un po' troppo   ingioiellate e   impellicciate, vengono  a prendere il tè.



L'hotel mi ha abbastanza delusa ma ho ammirato  moltissimo   le stupende  campane di vetro per i   pasticcini,  una diversa dall'altra. una meraviglia.






Stavo per dimenticare che nel Four Seasons c'è un'altra cosa degna di nota.


Per mia fortuna era mattina presto, la sala era vuota   e in cucina si  cominciava appena a  lavorare, così ho sfoderato la faccia da piccola fiammiferaia, nessuno ha avuto cuore di cacciarmi via e  ho potuto fotografare










venerdì 15 gennaio 2010

Ieoh Ming Pei, a Berlino.




La foto qui in alto risale al 1989 e riguarda la facciata principale della National Gallery of Art di Washington, un'opera di Ieoh Ming Pei.
Probabilmente a molti il suo nome non dirà assolutamente niente anche se giurerei che il novantanove per cento della gente ha trinciato un giudizio, il più delle volte del tutto arbitrario, su una sua opera che fu all'epoca molto discussa. E si, perchè Pei è l'autore della Piramide del Louvre.  Stavolta però, dal momento che manco da Parigi da un bel po' mentre sono quasi appena reduce da Berlino, non parliamo di piramidi  ma del bell'ampliamento del Deutsches Historisches Museum, che in un prospetto laterale ricorda abbastanza da vicino il Museo di Washington e anche se la strada stretta ha impedito una foto di tutta la facciata, il poco  che si vede è sufficiente per fare il confronto.




La storia  di questo museo   è stata piuttosto travagliata. Alla metà degli anni ottanta era stato Helmut Kohl in persona a volere, in una Berlino ancora divisa in due,  un museo nuovo di zecca dedicato alla storia della Germania. Era già stata individuata l'area su cui costruirlo, ed era stato indetto  un concorso internazionale,  vinto da Aldo Rossi. Dopo  il novembre 1989 però fu chiaro che il progetto così come era stato concepito non aveva più senso: a Berlino est  un museo sulla storia tedesca  esisteva già, ed era per di più in uno splendido  palazzo settecentesco sul viale Unter den Linden, e così nel  1995 fu ancora  Helmut Kohl a dare  incarico a Pei di riorganizzare e ampliare il museo esistente.
Cosa  non facile   dato lo spazio decisamente angusto a disposizione. Ma Pei in  poco meno di tremila metri quadri  costruisce uno spazio elegantissimo,  luminoso e trasparente e riesce  a unire    magnificamente il nuovo corpo all'edificio neorinascimentale esistente.  L’ingresso principale  si apre  sul  vecchio palazzo sulla Unter den Linden, da cui  si accede al cortile interno, coperto  da una enorme volta in vetro. 









Alla nuova ala si può arrivare dal cortile, attraverso un passaggio sotterraneo, oppure dallo stretto vicolo esterno, e lì l'impatto scenografico è davvero notevole. 









La facciata completamente vetrata riflette i palazzi circostanti  con un gioco raffinato che confonde continuamente la prospettiva  mescolando   interni ed esterni 









Dentro, l'attenzione viene catturata dalla grande scala, leggera e importante allo stesso tempo,  e dall'avvicendarsi delle   passerelle e dei  balconi interni che portano alle sale espositive








e non si può non ammirare l'uso sapiente dei materiali e la perfezione della realizzazione, a tal punto che è quasi impossibile da lontano  distinguere dove finisce il cemento e dove comincia il marmo. 



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