venerdì 31 ottobre 2014

La Parigi di August Strindberg

August Strindberg arriva a Parigi nel 1894.



Inferno, scritto tra il  1896 e il 1898, è il diario dei suoi due non facili  anni parigini 

sarà un libro o un romanzo, chiamatelo come vi pare...
....il mio Inferno è pianificato, ne ho trovato la forma e ora mi metterò a scriverlo

Strindberg é   sposato in seconde nozze con Frida, una ragazza  molto più giovane di lui, capricciosa e tirannica
La mia prima moglie era un demonio ma in confronto con la seconda era un angelo
Lui d'altra parte non è un tipo semplice, ha già sulle spalle un processo per vilipendio della religione e un secondo si sta celebrando proprio in quell'anno per via di un violentissimo pamphlet pubblicato contro la prima moglie,  è in bolletta, praticamente alcolizzato,  vanitoso e fatuo e dimostra già  una allarmante mania  di persecuzione.  Si interessa di occultismo ed è  ossessionato dal terrore che non ben identificate  forze ignote gli vogliano causare chissà quali sofferenze.



Appena arrivato a  Parigi viene ospitato da due loschi impresari che, scoprirà poco dopo, trafficano in quadri falsi, si spaventa perchè teme di essere diventato un testimone scomodo da eliminare, e sospetta che la moglie sia  complice del complotto.  Lei, esasperata dai continui litigi, lo molla e se ne torna in Austria. Da quel momento esplode la paranoia dello scrittore: nella cameretta al Quartiere Latino dove si è trasferito mette su un piccolo laboratorio chimico e comincia a fare strani esperimenti. 

Tornato alla mia squallida stanza da studente nel Quartiere Latino rovisto nella valigia e traggo dal loro ripostiglio nascosto sei coppelle di porcellana fine. Una pinza e un pacco di zolfo puro completano l'attrezzatura del laboratorio. Nel camino è acceso il fuoco d'un fornello di fusione: la porta è chiusa e le tendine sono calate.
 
 Si ustiona le mani e viene ricoverato all'ospedale Saint Louis 























Quando finalmente ne esce ha perso ogni interesse per l'attività letteraria.
Negli anni precedenti a Parigi  era già andata in scena La Signorina Giulia  e nell'inverno 1894 quando viene allestita una rappresentazione de  Il Padre, i giornalisti  vanno ad intervistarlo ma anzichè  parlare del suo teatro Strindberg   farnetica di esperimenti scientifici per fabbricare l'oro.
E' chiaramente un individuo disturbato e preda di fobie, basta il numero visto su un cartello  o un biglietto raccolto per terra perchè lui li interpreti, attraverso improbabili calcoli  e anagrammi, come segnali di un pericolo incombente. 


....faccio una passeggiata al Cimitero di Montparnasse.... scopro una tomba di classica bellezza... in un medaglione di marmo bianco sono ritratte le nobili sembianze di un vecchio sapiente che l'iscrizione mi presente come il chimico e tossicologo Orfilia.... Una settimana dopo, scendendo verso la rue d'Assas, mi fermo davanti a un edificio di aspetto claustrale. Albergo Orfilia! Racconterò nei capitoli seguenti tutto ciò che è avvenuto in quella vecchia casa nella quale mi ha sospinto la mano invisibile perché vi fossi mortificato, ammaestrato e, perché no?, illuminato.

























... [All'albergo Orfilia]  arriva una lettera... il diavolo ha messo il dito nel gioco e io ne intendo lo scopo. Si tratta di un mio nemico acerrimo che abita a Berlino. Un'altra volta un nome svedese mi ricorda un nemico che ho nel mio paese... Tutto ciò vuol dire che si sta spiando la mia sintesi dell'oro.... Non vi è più dubbio. Qui si trama un intrigo....

























Una delle mie passeggiate mattutine mi condusse all'Avenue de l'Observatoire, dove ero solito ammirare il gruppo delle quattro parti del mondo




















per il segreto motivo che la più attraente delle figure di Carpeaux 
assomiglia a mia moglie.


Ai piedi del monumento scorgo due pezzi ovali di cartone, l'uno reca stampato il numero 207 e l'altro il numero 28. Significano: piombo (peso atomico 207) e silicio (peso atomico 28). Io li raccatto e li custodisco tra i miei appunti di chimica...... poichè la metallurgia mi ha insegnato che  il piombo, in un crogiuolo alimentato da cenere d'ossa, dà un costante residuo d'argento nel quale si contiene sempre un po' d'oro,  deduco che il fosfato di calcio, componente principale della  cenere d'ossa, deve rappresentare l'elemento essenziale per la produzione dell'oro dal piombo....
....Queste inezie e molte altre del genere mi succedevano durante
 il mio soggiorno all'Albergo Orfilia fra il 6 febbraio e il 16 luglio del 1896.

Nel 1898, finalmente si è  liberato dalle ossessioni di Inferno e  scrive ad un amico

I miei pensieri sono altrove, lontani dalla chimica e dall'occultismo. Il fatto è che sono tornato seriamente all'arte del teatro, che è il mio mestiere.


martedì 28 ottobre 2014

Musée Nissim de Camondo






Sul Museo Nissim de Camondo  la mia guida Clup era  piuttosto laconica

 Nissim, conte di Camondo, era un ricco dilettante amante dell'arte del XVIII secolo. 
Nel 1910 si fece costruire una casa simile al Petit Trianon di Versailles dove 
reinventò una corte degna di Luigi XVI. Il museo ospita mobili
firmati da Jacob, Riesener, Saunier e tappezzerie Gobelins e Aubusson.

Non sono una particolare estimatrice di mobili d'antiquariato nè di tappezzerie Gobelins e quindi  il Museo non era mai entrato nella mia lista delle cose  imperdibili di Parigi, ma un  pomeriggio, mentre gironzoliamo tra le rovine un po' vere e un po' finte del Parc Monceau,  


il cielo diventa di quel nero incombente che non promette niente di buono e bisogna trovare un riparo prima che si scateni il diluvio.  Da quelle parti ci sono due musei però  uno, il Cernuschi,  l'abbiamo  visitato da poco, e perciò  non ci resta che entrare nel secondo, il Nissim de Camondo.
Per prima cosa veniamo a scoprire  che il ricco dilettante amante dell'arte non è Nissim, come scriveva la Clup,  ma suo padre conte Moïse il quale ha intitolato la sua residenza privata al figlio aviatore caduto in guerra nel 1917.  E' solo un'altra delle tante imprecisioni di questa guida un filino snob che nonostante tutto continuo a tenere nello zaino  perchè riporta cose che le  altre guide non segnalano (o anche perchè,   forse,  un filino snob lo sono anche io, diciamolo) 





La casa è  stracarica di mobili e oggetti preziosi, nessuno dei quali ovviamente alla  portata di un comune mortale, ma non ha per niente l'aspetto del museo ingessato  e anzi trasmette il calore di una casa vera,  di quelle che nonostante tutte  le differenze di gusti  di cultura e di soldi,  ti fanno  sentire come piselli dentro un baccello anche se  il tuo ideale di casa è  anni luce distante.





Incanta la  saletta che raccoglie semplicemente  un   superbo servizio da tavola in porcellana di Meissen 

e si rimane praticamente  imbambolati ad ammirare tutta l'ala destinata alla servitù e ai servizi di cucina,





con tanto di ufficio del  capo cuoco col  librone aperto alla pagina dei menu della giornata














e la  sala da pranzo per il  personale, dove  ciascuno dei camerieri può contare su uno stipetto personale e  sobrie   raffinatissime stoviglie candide.







Viene da pensare che in una casa come questa non ci sia stato  altro che solida felicità e invece  la famiglia Camondo è stata funestata dalla tragedia.

Ebrei sefarditi originari della Spagna,  quando nel 1492 l’Inquisizione decreta l'espulsione degli ebrei che non accetteranno di convertirsi, i Camondo si rifugiano nella Repubblica di Venezia, tanto che pare  che  derivino il loro nome dal dialetto veneziano:  Ca’Mondo, Casa del Mondo. 
Nel Settecento li troviamo, mercanti di stoffe e spezie,  a Costantinopoli, da dove il sultano li caccia per illeciti finanziari  (veri oppure no? non lo sappiamo).  La famiglia trasloca alla volta di  Trieste e poi Vienna,  ma è nuovamente a Costantinopoli che nel 1802 Isaac Camondo fonda  la sua banca. Gli affari vanno decisamente bene, visto che quando Isaac muore di peste trent'anni dopo  lascia in eredità al fratello Abraham Salomon un patrimonio stimato in venticinque milioni di dollari. Altri trent'anni dopo, la banca viene trasferita a  Parigi e nel frattempo Abraham Salomon Camondo coltiva importanti legami con Vittorio Emanuele II, a cui consegna  una quantità ingente di franchi  per l'Orfanotrofio di Torino, offre sussidi alla causa dell'unificazione, finanzia  la scuola italiana di Costantinopoli e contribuisce in maniera robusta alla creazione di un ospedale italiano a Istanbul. Per tutte queste benemerenze nel 1867 il re lo ricompensa col titolo, trasmissibile per primogenitura,  di conte e per fare buon peso gli  attribuisce anche uno stemma e il motto Fides et Caritas.  Passato il testimone ai nipoti Abraham Behor e Nissim, la banca Camondo cresce sempre più fino a partecipare al finanziamento del canale di Suez. E' in questi anni intorno al 1870 che i due fratelli acquistano un lotto di terreno nel nuovissimo quartiere elitario  che sta sorgendo intorno al parco Monceau. Frequentano il bel mondo parigino e  stringono amicizia con Proust. E deve essere un'amicizia autentica,  visto che   Proust  esprime in una lettera al conte Moïse tutta l’’ansia per il giovane  Nissim che combatte al fronte.
Tra la fine degli anni settanta e il 1889 muoiono sia il patriarca Abraham Salomon che i fratelli Nissim e Abraham Behor.  I rispettivi figli Isaac e Moïse continuano l'opera di mecenate.  Isaac, musicista colto e appassionato, frequenta Fauré e Debussy,  fonda  la Société Musicale  e finanzia la costruzione del Théâtre des Champs Élysées che aprirà  le  sue porte nel 1913,  due anni dopo la sua morte. Non ha eredi legittimi e lascia in eredità  le sue collezioni allo stato francese.
Moïse continua ad accumulare opere d'arte nel suo hôtel particulier al 63 di rue Monceau, che  nel 1910 aveva fatto ricostruire secondo uno stile chiaramente ispirato al Petit Trianon di Versailles. Il suo matrimonio era fallito dopo appena una decina d'anni, quando la moglie lo aveva lasciato per unirsi ad un nobile italiano, e già da quel momento la sua vita mondana si era chiusa bruscamente  ma dopo la morte del figlio Nissim nel 1917  la sua  solitudine diventa totale, rotta soltanto per ricevere, rarissimamente, pochi amici fidati.   La sua secondogenita, Béatrice,  sposata con  il  musicista Léon Reinach da cui aveva avuto Fanny e Bertrand, sarà internata nel campo  di  Drancy  assieme  al marito e ai due figli e deportata  nel 1943 ad  Auschwitz, dove morirà due anni dopo, ultima della sua famiglia.  Grazie al cielo almeno questa ultima tremenda batosta al conte viene risparmiata: è morto nel 1935.


giovedì 16 ottobre 2014

Moliere


Jean Baptiste Poquelin nasce a Parigi nel gennaio  1621.
Lascia la  facoltà di  giurisprudenza per  dedicarsi al teatro e a ventidue anni, insieme a Madeleine Béjart,  fonda l'Illustre Théâtre e inizia a recitare   con il nome di Moliere.  Si copre di debiti e per questo finisce allo Châtelet, la prigione dei debitori, ma torna in libertà nel giro di un paio d'anni  e per altri dodici, insieme ad una nuova  compagnia teatrale,   calca le scene di Tolosa, Bordeaux, Avignone,  Lione, insomma un po' tutta la provincia francese.

Mette in scena farse, commedie a canovaccio e balletti che compone lui stesso, gli affari continuano a non funzionare ma in compenso la sua compagnia ottiene l'onore di  fregiarsi del titolo di Comédiens de Monsieur (Monsieur era il fratello del Re). Al titolo dovrebbe essere unita anche una pensione, che però pare non sia mai stata pagata.  Nel 1659 finalmente una sua opera ha la fortuna di piacere al re in persona, e da quel momento  la sua carriera prende il volo. 




Sono gli anni dei grandi capolavori: L'Ecole des femmes, le Tartuffe, Don Juan, Le Mísanthrope.   Lusingato dal  successo  e  stimolato dalle polemiche,  Moliere  scrive le sue commedie più importanti ma non disdegna nel frattempo di dedicarsi anche   a operine minori destinate all'esclusivo piacere del re e della sua corte.   
Ha poco più di quarant'anni quando sposa  Armande Béjart, figlia di Madeleine, che è molto più giovane di lui e a detta di molti non brilla per la sua moralità. 
Ai primi del 1668 debutta  con grande successo con  Amphitryon,  scintillante riscrittura  della commedia di Plauto, ma alla fine dello stesso anno la prima de  L'Avare  è quasi un fiasco.  Continua ad  alternare grandi commedie e soggetti più modesti   per farse e balletti privati  a cui talvolta prende parte anche Luigi XIV nelle vesti di ballerino.




































Si  separa  da Armande e comincia ad avere problemi di salute, ma dopo qualche anno finalmente, con la sicurezza economica  arrivano anche  la riconciliazione con la moglie e una tregua alle polemiche con i suoi  detrattori. E' un periodo di calma, ma  non dura a lungo:   Giovanni Battista Lulli,  compositore mimo e ballerino fiorentino che aveva mosso i primi passi a Parigi come suo collaboratore,  sta  portando nei teatri l'opera lirica italiana che nessuno in Francia aveva ancora avuto modo di conoscere, e ne ricava non soltanto grandi consensi di pubblico, ma perfino la protezione del re.  La rivalità  è per Moliere, che già è malato di polmoni, motivo  di grande amarezza e il  17 febbraio 1673, mentre sta recitando il Malade imaginaíre,  cade vittima di un attacco del suo male. Riesce con enorme sofferenza a portare a termine  lo spettacolo, poi si mette a letto ma la  tosse è  talmente violenta  che una vena nei polmoni gli si rompe,  e in meno di mezz'ora muore soffocato dall'emorragia.  Aveva fatto in tempo a chiedere l'assistenza di un prete, che si era ben guardato dall'accorrere, e il giorno dopo  il curato della parrocchia di sant'Eustace





































gli rifiuta la sepoltura  in terra consacrata in quanto attore, e come tutti gli attori, scomunicato.
Armande  allora si rivolge  al re, che raccomanda all'arcivescovo di Parigi di  evitare che il rifiuto dia adito a polemiche  e così  Moliere viene tumulato di nascosto, di notte e senza la presenza di sacerdoti, ma nel cimitero consacrato di San Giuseppe.  
Nel secolo diciannovesimo lo  hanno spostato al Pere Lachaise, arruolato sul campo come testimonial di lusso insieme a La Fontaine,   Abelardo ed Eloisa,  per convincere i parigini a farsi seppellire nel nuovo cimitero appena inaugurato





venerdì 3 ottobre 2014

Dionigi Galvagno, panettiere



Alle ore 23 del 31 luglio 1942 la tradotta con un lungo fischio lasciò Borgo San 
Dalmazzo con il  suo carico di giovani per una guerra già persa in partenza
 e pochi di quella tradotta rividero  ancora Borgo San Dalmazzo, del gruppo  di amici
 solo io ritornai avendo fatto tutta la ritirata.........
gli dico siamo ritornati altre volte e ritorneremo anche questa volta, ma non fu così... 
 (dal diario di Dionigi Galvagno)


Dionigi Galvagno era mio suocero. Era nato nel 1914 e come tutti i suoi coetanei si era dovuto sobbarcare anni e anni di guerra. L'esperienza più tragica, che lo aveva segnato indelebilmente, era stata la ritirata di Russia dalla quale, di tutti i suoi commilitoni e amici,  lui solo era ritornato.


Dopo la nascita delle nostre figlie aveva deciso finalmente di scrivere i ricordi di questa terribile ritirata, ci stava pensando da tempo perché voleva, con tutte le forze, che questo pezzo di  storia non venisse  mai dimenticato.  Il 14 settembre avrebbe compiuto cento anni, e noi  abbiamo deciso  di celebrarlo  leggendo alcune pagine di questo suo diario.













Franco lo ha voluto ricordare così

Mio padre aveva la terza elementare, e il non aver potuto andare a scuola è stata per lui una ferita mai sanata, che assieme a quella della sua vita militare lo ha segnato per tutta la vita. Queste due esperienze sono sempre state presenti nei suoi discorsi e nei suoi ricordi, con lo stesso peso. Così mi spinse a studiare, volle che mi iscrivessi alla scuola media e poi al liceo. Non ho mai avuto il coraggio di abbracciarlo e dirgli quanto importante per me sia stata questa sua decisione, neppure negli ultimi anni della sua vita, perchè il carattere piemontese, o sabaudo come qualcuno ama definirlo, non è solo sobrio, ma talvolta anche così stupido da non permettere la sincera ed aperta dimostrazione degli affetti. Era nato il 14 settembre del 1914 a Sommariva Bosco.  Mio nonno paterno faceva il fabbro, la sua attività principale era quella del maniscalco. Quando tornò dalla grande guerra riaprì la bottega, ma i tempi erano cambiati, non poteva permettersi un lavorante e, finita la terza elementare, decise di non mandare più a scuola suo figlio e di farlo lavorare con sé. Terminata la parentesi da apprendista fabbro, di tornare a scuola non si parlò più e, dopo un periodo da apprendista muratore, dopo il servizio militare mio padre si trasferì a Torino, iniziando quello che sarebbe stato il lavoro della sua vita, il panettiere.  Aveva fatto il servizio di leva nel corpo degli Alpini, come da tradizione dei nostri luoghi. 


Nel 1936 fu mandato a Genova, in attesa dell'ordine di partenza per l'Africa; sono rimaste fotografie in cui è assieme ai commilitoni in riva al mare. L'ordine della partenza per l'Africa per mio padre non arrivò mai. In compenso partecipò alla campagna in Albania e Grecia, le cui reni avrebbe dovuto contribuire a spezzare. 



Tornò sano e salvo per un caso del destino. La nave che lo riconduceva in Italia faceva parte di un convoglio di tre unità: la prima e la terza furono silurate, quella di mezzo, su cui si trovava, compì indenne la traversata fino a Bari. Fu nuovamente richiamato e nel luglio del 1942 partì con la Divisione Cuneense per la campagna di Russia. 


Faceva parte delle salmerie (o della "sussistenza", come l'ha sempre chiamata), comandato a preparare il pane per le truppe. Non direttamente in prima linea. Ho sentito più di una volta qualche solone sentenziare che questi non erano soldati e quindi non era poi così strano che si fossero salvati. Affermazioni del genere si commentano da sé. non partirono certo con entusiasmo, né lui né gli altri, capendo benissimo a quale disfatta sarebbero andati incontro, male equipaggiati, in zone non adatte al tipo di azione militare che un corpo di artiglieria alpina sapeva condurre, messi sull'avviso da chi era partito per il fronte russo già nel '41 ed era ritornato. Ma partirono: per dovere, per obbligo e per quella rassegnazione che ha sempre contraddistinto le classi subalterne. Ancora una volta la sorte gli fu benigna perchè,  al termine della battaglia di Nikolajevka del 26 gennaio 1943, senza immaginarlo, si trovò a seguire quelli che sarebbero tornati, e durante la strada dovette veder gli amici di una vita morire in mezzo alla neve. Non ha mai voluto partecipare a raduni o sfilate, perchè le vicissitudini della campagna di Russia e il ricordo dei compagni perduti per sempre gli impedivano di accettare l'aspetto retorico di queste manifestazioni, ma  non ha mai dimenticato gli amici e a sfilata finita andava ad abbracciarli. È morto per un infarto nell'ottobre del 1981, la sera di un bellissimo sabato trascorso a casa nostra, cercando funghi nel boschetto vicino - una delle sue grandi passioni assieme alla (proibitissima) pesca con le mani nei fiumi - e giocando con le nipoti.  Scrivere non gli veniva né naturale né facile, quindi il fatto stesso che  abbia messo i suoi ricosdi  su carta, con la scrittura fitta ma ordinata, prudente e scrupolosa delle generazioni in cui la “bella calligrafia” era materia scolastica, la dice lunga sulla forza di quei ricordi e sull'urgenza di raccontare. Sono pagine che descrivono in modo molto diretto gli eventi, contengono errori di ortografia, di grammatica, di sintassi, perchè sono scritte da una persona che non ha potuto andare oltre la terza elementare, ma proprio a questo devono la loro forza. Ho letto per la prima volta quelle pagine quando era ancora in vita. Allora ritenevo che si dovessero correggere prima di farle leggere ad altri. Negli anni successivi ho capito che quelle pagine devono essere lasciate come sono, se si vuole che siano vive e che parlino a chi le vuole ascoltare. Quando abbiamo pensato come ricordarlo a cent'anni dalla nascita, siamo stati concordi nel ritenere che non ci sarebbe stata cosa migliore da fare, se non quella di far semplicemente conoscere qualche pagina di questa sua personale testimonianza. Qualcuno mi ha chiesto se mio padre gradirebbe questo modo di festeggiarlo, fosse in vita. Rispondo di si, senza alcuna esitazione. So che le ha scritte soprattutto perchè il ricordo rimanesse vivo nella nostra famiglia, ma sono certo che, in cuor suo, avrebbe voluto farle conoscere ai miei amici, con i quali gli era difficile parlare perchè non era "istruito". 



Il 14 settembre abbiamo festeggiato i 100 anni di Dionigi insieme a tantissimi amici, ma tanti tanti davvero


e ci siamo emozionati  come mai avremmo pensato. Un grazie di cuore a Carlo Roncaglia, Vince Novelli, Enrico De Lotto, Giò Dimasi, e naturalmente ad Elisa

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