lunedì 22 novembre 2010

Sister Act



A me i musical hollywoodiani sono sempre piaciuti, e non soltanto per il fatto più che ovvio che, dato che mi piace la musica, mi devono  piacere anche i film musicali. Non è solo per quello: a me ha sempre   affascinato   che al culmine di una scena drammatica  i protagonisti si mettessero  a cantare e ballare mentre  dal nulla  si materializzavano orchestra e coro, e magari anche un corpo di ballo. Finzione allo stato puro senza nessuna ridicola  pretesa di simulare  la realtà, una  favola bella e buona  con garanzia certificata di happy end finale, ogni problema risolto e tutti  felici e contenti da qui all'eternità. Una meraviglia.
Non sarà l'intrattenimento più intellettuale del mondo, non dico questo, però torni a casa più allegro, c'è poco da dire. 
Non mi era mai capitato però di assistere nella realtà ad   una scena da  musical, e per essere sincera fino in fondo,   se anche   lo avessi immaginato, tra tutte le categorie possibili mai avrei pensato di vedere impegnate in una  performance coreografico-musicale delle  suorine autentiche.    
A Venezia.  Maggio 2010.
Fotografie scattate dalla mia amica Elena















mercoledì 17 novembre 2010

Paradisi Artificiali: Williams-Sonoma

Questo è un  post ad personam dedicato principalmente alla mia amica Erika che sta progettando a breve  un viaggetto nella Grande Mela. 


Essendo anche lei una strenua   caccavel-dipendente, 

credo sia un  mio preciso  dovere, non potendola accompagnare fisicamente, fornirle quanto meno alcune  indicazioni  in merito ai pellegrinaggi fondamentali per evitare crisi di astinenza, che come ben sappiamo possono rivelarsi  ancora più perniciose quando ci si trova  lontani da casa e non si dispone di un pusher di fiducia.
Cominciamo  da Williams Sonoma, mecca  delle mille tentazioni (vedere per credere) 

assolutamente imperdibile, anche in considerazione del fatto che può contare su ben ventisette sedi  racchiuse  entro  cinquanta miglia, e almeno sette di queste ventisette sedi  si trovano nel centro del centro di Manhattan. Consiglio,  per cominciare a prendere confidenza, lo store che si trova in  Columbus Circle

Lo spazio non è enorme ma scicchissimo  raffinato, e caro, però va detto che   la qualità dei prodotti è notevolmente  alta, direi ancora  più che  non da Crate and Barrel , e tantissimi tra i gadgets per cui si sarebbe disposti ad  uccidere si trovano solo qui, in esclusiva.



Andate a lustrarvi gli occhi e state pure  tranquilli,  perché dove il buonsenso nulla può fare per fortuna provvedono le norme sul  peso dei bagagli a limitare drasticamente gli acquisti a qualche asciughino  un grembiule e va là. 



Da Williams-Sonoma c'è anche  la possibilità di far personalizzare i  regali col nome del destinatario, ed è un pensiero che fa' sempre colpo. Lo posso dire con cognizione di causa: le spatole che mi ha regalato Elizabeth   qualche Natale fa  destano  ancora oggi  l'ammirazione e l'invidia di molte amiche.





giovedì 11 novembre 2010

A l'é MAC BUN!

A casa mia l'hamburger si è sempre mangiato. A cercare il pelo nell'uovo non era proprio proprio un hamburger con tutti i crismi,  mia nonna infatti  lo chiamava  svizzerina, lo cuoceva fino a farlo diventare una suola da scarpe e di solito  lo accompagnava con un contorno  di purè di patate con poco latte e  senza burro. Perchè il  burro faceva male. Anche  il prosciutto crudo faceva male, e i formaggi (tutti tranne la Berna), i sottaceti   i wuster i budini (tollerati, ma  solo per occasioni speciali, i budini Elah) e  la senape.
Col bollito, e solo col bollito, era permesso  un invisibile baffo di salsa Rubra.
Anche bere troppa acqua a tavola faceva male, faceva venire le rane nella pancia.  Ma le rane nella pancia venivano comunque,  anche se si beveva lontano dai pasti.
Credo sia stata questa la molla che mi ha fatta diventare  una fan sfegatata di Mc Donald già  molto tempo prima che Mc Donald sbarcasse in Italia. La sua esistenza mi si era rivelata casualmente, guardando  un vecchissimo  film in bianco e nero di serie B durante uno dei tanti  pomeriggi estivi in cui per sfuggire all'afa  mia sorella e io  ci chiudevamo subito dopo pranzo nel Cinema La Perla, l'unico che  proiettava due film diversi ogni pomeriggio.
Solo dopo avevo scoperto che, anche se in Italia non c'era nulla di simile, all'estero  Mac Donald e  Burger King pullulavano e andarci a pranzare quando eravamo in vacanza era una autentica  festa. A me  piaceva da morire tutto quanto, il panino al sapore di segatura, la polpetta  finalmente sapida e  grondante di  grasso che colava in mezzo alle dita, il sacchetto di patatine unte e bisunte e perfino  quell'ineguagliabile effluvio,  un misto di  fritto vaniglia e ketchup che in un amen ti  impregnava vestiti e capelli, e che  voleva dire vacanza si,  ma anche trasgressione (da bambini  le idee sulla trasgressione sono ancora abbastanza  approssimative)
Dopo l'arrivo sul suolo patrio  dell'amico Mac però devo ammettere che  il fascino del frutto proibito  aveva perso parecchio appeal,  complice anche una accresciuta  consapevolezza sui rischi da eccesso di colesterolo e forse pure   una  migliorata sensibilità  in campo olfattivo, diciamolo. Fatto sta che erano secoli che non mettevo piede in un fast-food-trattino-hamburgeria. 
Fino a ieri, quando sono andata a pranzo nella prima e unica  Agrihamburgeria  Slow Fast Food  di tradizione piemontese,

che serve  solo carne fresca di fassone piemontese, patate cucinate sul momento, pane  di panetteria e bevande naturali: birra artigianale e vino prodotto dalle nostre parti. No surgelati, No prodotti industriali. 
I proprietari avevano pensato con una discreta dose di  ironia  di  chiamarlo Mac Bun, espressione dialettale che  si traduce in italiano con Soltanto Buono,  ma  l'idea non era  piaciuta agli avvocati dell'altro Mac, i quali lancia in resta avevano minacciato cause penali per appropriazione indebita di marchio depositato,  con grande battage sui giornali. 
Detto fatto, Il MAC BUN è  diventato M** BUN 


e credo che i proprietari ancora stiano benedicendo la minacciata querela per la enorme pubblicità gratuita che ne hanno tratto.Menu scritto in piemontese, gettonatissimo il Chiel (Lui)

hamburger classico con insalata e pomodoro, ma vanno alla grande anche il Tuma con formaggio,   il Mach ca Brusa con peperoncino, e le insalate di carne cruda à la piemunteisa con l'aglio e à la franseisa con senape. 






 
I prezzi sono più che ragionevoli anche se, ça va sans dire, sono più alti dei fast food tradizionali, ma a parte  ogni confronto sulla qualità del cibo servito (confronto improponibile, siamo proprio su pianeti diversi), la pulizia è impeccabile,   le stoviglie sono  biodegradabili e   la raccolta  dei vassoi usati  avviene in maniera superdifferenziata. Nessuna puzza di fritto, il personale è garbato e  svelto  

e la coda non dura mai più di qualche minuto.
Ho letto che stanno per aprire un nuovo punto a Torino. 





 
  













Rimedio subito al giusto appunto di Lydia: il locale si trova a Rivoli, in corso Susa 22/E.  A due passi dal mio studio 













lunedì 8 novembre 2010

Madama Butterfly al Teatro Regio










La Madama Butterfly per intero io  non l'avevo mai vista e ne avevo un'idea assai  approssimativa. Avevo sempre creduto, tanto per far comprendere l'abisso della mia ignoranza,  che  la storia di Cio Cio San e di Pinkerton fosse una bella storia d'amore funestata da un finale tragico.
A parte il finale che è effettivamente tragico, la bella fiaba esotica invece altro non è che  una sordida storia di sfruttamento sessuale. E ditemi se sbaglio: Giappone - un ignobile americano  si compra per pochi soldi una bambina di quindici anni, la molla dopo un mese dicendole che ritornerà nella stagione in cui  i pettirossi fanno il nido, e non si fa' più vedere per tre anni. La bambina nel frattempo ha messo al mondo un figlio e  vive nell'illusione di essere moglie del  bellimbusto, il quale  prima o poi ritornerà da lei per portarla in America.  Il bellimbusto torna infatti, ma è corredato di  una nuova moglie e non è per niente intenzionato a rivedere la poverina, tanto che chiede ad un altro di levargli le castagne dal fuoco e dire a Butterfly (le aveva pure dato un nomignolo affettuoso, l'infame)  di togliersi  dai piedi senza fare storie. Quando poi viene informato che la ragazzina ha dato alla luce un figlio suo, l'idea migliore che ha è di portarlo via alla madre legittima  e affidarlo alle amorevoli cure della nuova moglie. Dal suo punto di vista è  un'ottima pensata: in un colpo solo si può liberare dell'amante da archiviare, affibbiare la gatta da pelare alla moglie  e ritrovarsi così  libero come un fringuello per  mettere al mondo qualche altro figlio con una nuova bambina, immagino. A Butterfly, ripudiata dalla famiglia d'origine e  senza un soldo in tasca, non resta  altra scelta che  rassegnarsi a lasciare il bambino al padre  e suicidarsi.
Ovviamente Pinkerton  arriverà cinque minuti dopo,  giusto in tempo per potersi disperare e cantare il suo rimorso sul cadavere.





Questa la trama, detta con parole mie e filtrata attraverso la mia interpretazione personale, forse viziata dalle vicende di cui ci informano ampiamente le prime pagine dei giornali da qualche tempo in qua, ma che  non mi sembra però molto   lontana dalla lettura che ne ha dato anche  il  regista, che lascia da parte  chimoni d'ordinanza e  orpelli  da sol-levante-di-casa-nostra per  catapultarci tra i cartelloni e i neon di una squallida strada di  periferia, nel mezzo della quale  una piccola serra trasparente è il fulcro intorno a cui si dipana tutta la vicenda e che diventa via via la vetrina da cui le prostitute adescano i loro clienti ma  anche la la stanza  che  la povera   Butterfly considera   casa,  il  rifugio che la  dovrebbe proteggere e che invece la espone, inerme,  alla curiosità cinica della gente.



Bellissimo e toccante, ai limiti dei lucciconi,   il coro a bocca chiusa del secondo atto dove il buio quasi completo della scena è  interrotto soltanto da una teoria di  fiochi lumini. Mercoledì 10 novembre la prima.

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