Ero stata a trovare la figlia emigrante e stavo ritornando a casa.
L'hostess mi accompagna al posto: corridoio centrale, vicino a me una giovane mamma con due bambinetti, una intorno ai tre anni ed uno piccolino, sette otto mesi al massimo.
Cinture di sicurezza allacciate, ci prepariamo al decollo. I motori cominciano a rullare, l'aereo si muove per portarsi sulla pista. Succede sovente che ci si debba fermare qualche minuto quando c'è molto traffico, e infatti dal finestrino vediamo una sequenza di aerei in batteria, tutti pronti per il decollo. Poco male, aspettiamo il nostro turno. La giovane mamma ed io facciamo conoscenza, lei è iugoslava e parla un inglese perfetto, io molto meno ma riusciamo a spiegarci lo stesso: è diretta a Sarajevo, deve imbroccare la coincidenza per Belgrado e c'è poco tempo, dovrà attraversare tutto l'aeroporto e non sarà semplice con i due bambini appresso e un principio di influenza.
Anche io dovrò correre, avrò soltanto quaranta minuti per prendere il volo per Torino.
Nel frattempo aspettiamo, la bambina comincia ad aver fame e il piccolo piagnucola. Speriamo di decollare in fretta. Passa mezz'ora. Cinture allacciate, la bambina sta buonissima sulla sua sedia ma il bimbo si agita. Le guance della mamma si stanno arrossando. Passa un'ora. Le hostess continuano a dirci di aver pazienza, non manca molto. Passa un'altra mezz'ora. Le guance sono sempre più rosse, il bambino piange e la bimba sembra spaventata, fortunatamente riesco a tranquillizzarla ma mi dice che ha un po' fame. Le guance sono ormai di fuoco. Ormai sono quattro ore che siamo seduti con le cinture allacciate, molti passeggeri protestano a voce alta, io scannuccio la mia vicina che mi sembra sull'orlo di una crisi di nervi, poverina. Chiamo l'hostess, che capisce la situazione: mi chiede di tener d'occhio la bambina e prende in consegna mamma e bambino. Finalmente decolliamo, la bambina si è appisolata e vedo dietro la tenda che un paio di persone si danno da fare intorno alla mamma ed al piccolo. Meno male, tra un po' serviranno la cena e tutto andrà a posto.
Arriva la hostess e con molta circospezione mi spiega che la signora avrebbe bisogno di distendersi durante il viaggio, perciò sarebbe un gesto generoso da parte mia cederle anche la mia poltrona e accettare un'altra sistemazione. Accetto subito, ci mancherebbe, mi alzo e seguo l'hostess. La mia vicina mi lancia un bacio sulla punta delle dita, e io vengo pilotata verso il corridoio davanti. Ci sono alcune poltrone vuote, ma l'hostess continua a camminare. La seguo. Attraversiamo la businness class. Di posti vuoti ce ne sono, ma l'hostess prosegue ancora. Vuoi vedere che mi fanno viaggiare in grembo al pilota?
Arriviamo in prima classe. Otto poltrone a metà tra il triclinio e la sedia del dentista, ciascuna con un grosso schermo davanti e un pannello di controllo più grande della consolle dell'Apollo 13.
Mi fanno accomodare lì. Ho appena il tempo di capire che ho a disposizione venti film diversi, ciascuno doppiato in otto lingue, e un massaggiatore automatico che posso far ondeggiare a mio piacimento, che arriva un'altra hostess. Mi sembra più elegante e più carina delle colleghe in classe turistica ma deve essere solo suggestione, e mi apparecchia una vera tavola in venti centimetri quadrati. Trasecolo. Non mi porge un vassoio di plastica con tre vaschette di alluminio preriscaldate, mi apparecchia una vera tavola, con tovaglietta di fiandra, posate vere e vero bicchiere di cristallo. per l'emozione innesco il massaggiatore da poltrona e comincio a sballonzolare e la mia hostess, con ammirevole aplomb, anzichè sghignazzarmi in faccia aziona il pulsante e la potrona grazie al cielo si blocca. Mi servono gli appetizers mentre uno steward con alamari e galloni mi versa lo champagne nel bicchiere. Intorno, altri tre fortunati molto più scafati di me si lasciano suagnàre con grande distacco. Devono essere abituati a questo trattamento, loro. Io invece mi sento come dire, miracolata e rimpiango di non aver la macchina foto. un'occasione così quando mai mi ricapita.
Mi si chiude lo stomaco mannaggia l'emozione, e dopo gli appetizers rifiuto di sapere cosa altro prevede il menu, sono sicura che rimpiangerò per tutta la vita questo imprevedibile attacco di inappetenza. Accetto solo un piccolo dolcino, e mi viene adagiata sulla fiandra immacolata una microporzione di tarte tatin con un cucchiaino di gelato alla vaniglia. Assaporo pensando che se questo non è il paradiso, ci siamo molto vicini.
Accendo lo schermo e faccio zapping tra i venti film e le otto lingue diverse riuscendo a non cogliere nemmeno una sillaba e a non capire neanche una trama, mentre intanto la poltrona ha ripreso ad andare su e giù, ma lentamente, come se mi volesse cullare.
Passano le ore, e dato che tutto finisce, ma le cose belle finiscono prima, atterriamo. Scendo insieme alla giovane mamma, si è ripresa e le guance non sono più arroventate. Prima di correre a cercare le nostre coincidenze abbiamo il tempo di scambiarci quattro parole, mi ringrazia e mi dice che sono stata proprio generosa, un vero angelo.
Le sorrido maternamente e le dico di non preoccuparsi, per carità: nessun sacrificio è troppo grande quando si può compiere una buona azione