Nei primi giorni di novembre 2013 e per la prima volta in un'Istituzione Museale Italiana, Nedko Solakov ha lavorato instancabilmente durante l'orario di apertura del mueso - e quindi sotto gli occhi dei visitatori della GAM...... Nedko, salendo e scendendo le scale per la realizzazione di Eight Ceilings - opera che grazie alla Fondazione per l'Arte Moderna e Contemporanea CRT, ora fa parte della collezione permanente GAM - ci ha fatto osservare che non tutti i visitatori avrebbero potuto vedere il suo lavoro. Così, dopo una visita alle nostre collezioni, ha deciso di disegnare anche sulle panche e donare alla GAM il lavoro Thirteen Benches. Un gesto generoso fatto con l'intento di garantire a tutti i visitatori, compresi coloro che per necessità non accedono alle collezioni attraverso le scale e non possono quindi godere dell'opera sui soffitti, di relazionarsi al suo lavoro lungo il percorso espositivo. Osservando i soffitti e scrutando le panche vi troverete coinvolti in un'avvincente ricerca delle molteplici tessere disseminate negli spazi di collegamento del museo e lungo il percorso espositivo
con l'intento di rendere partecipi anche i lettori di V.ed E. impossibilitati a godere di persona dell'opera torinese del Maestro, crediamo di compiere opera meritoria condividendo un modesto estratto del lavoro in oggetto
Dal momento che non solo le dimensioni dei soffitti ma altresì le dimensioni della superfici dipinte sono sensibilmente inferiori alle dimensioni della Cappella Sistina, si è ritenuto di far cosa utile, per facilitare l'avvincente ricerca delle molteplici tessere disseminate negli spazi di collegamento del museo e lungo il percorso espositivo, evidenziare con freccia rossa e, ove necessario, anche con l'immagine di un paio di occhiali, i punti più significativi che ad un un occhio distratto potrebbero sfuggire.
Thirteen Benches
Una delle tredici panche - visione d'insieme
Anno 1860. Siamo nel pieno del boom edilizio a cui ha dato il via il barone Haussmann sotto l'egida di Napoleone
III con l'obiettivo di abbellire e modernizzare il centro cittadino levando di mezzo il labirinto medievale di strade e stradine tortuose che non solo erano insalubri, ma fornivano anche alla popolazione un ottimo nascondiglio e mille vie di fuga in caso di sommosse e manifestazioni.
Rue de Turbigo, che deve il nome alla vittoria del1859 sull’esercito austriaco, nasce in quel periodo e parte grosso modo vicino alle Halles tagliando poi diagonalmente fino a terminare in place de la Republique, dove nell’ultimo tratto prende il nome di rue du Temple.
Non è una strada aristocratica come il vicino Marais, è destinata ad ospitare belle case d’affitto costruite per la nascente borghesia e tra i primi inquilini conta commercianti di tessuti, sarti, bustaie e modiste.
All’altezza del numero 57, su un edificio progettato dall'architetto
Eugène Demangeat,una colossale figura
alta tre piani, dall’espressione
impenetrabile e l’abito pieghettato come una colonna corinzia, sembra vegliare sui passanti mentre con le
piume delle ali sorregge i balconi del
quarto piano.
E’ una figura intrisa di mistero. Potrebbe essere una cariatide, se non fosse che non si è mai
vista una cariatide con le ali, o potrebbe essere un angelo, ma un angelo di solito non se ne va
in giro addobbato di collane nappe e nastrini. Per tagliare la testa al toro, qualcuno
ha ipotizzato che sia una allegoria della
passamaneria, una sorta di omaggio alle
tante sartorie e mercerie che all’epoca operavano nella zona.
Bisogna a questo punto sapere che sei o sette anni prima l’Accademia di Belle
Arti aveva indetto un concorso per la decorazione di un faro, a cui l’artista Auguste Emile Delange aveva partecipato presentando
il disegno di una creatura alata. Il
progetto non si era concretizzato, e infatti nessuna creatura alata era mai stata vista su nessun lungomare di Francia, ma il previdente Delange non butta via i cartoni del lavoro e di lì a qualche anno li tira fuori dal cassetto e li riadatta per l’angelo/cariatide
di nove metri sulla casa di rue de Turbigo.
Profilo greco e pettinatura rinascimentale sono in linea con il gusto eclettico dell’epoca, perfino le nappine e i ponpon sembrano disegnati su misura per la nuova destinazione, ed ecco l'angelo bell'e pronto, nel rispetto del rigido regolamento haussmanniano che vietava ogni elemento sporgente dal filo del fabbricato, e senza togliere nemmeno un po' di luce alle novanta finestre dell’edificio.
scopro ora il breve documentario che Agnes Varda ha dedicato alle cariatidi parigine c'è anche l'angelo di rue de Turbigo
Torino è una bella città e, in quanto a spazio, penso che superi ogni immaginazione.
Si trova in mezzo a una vasta pianura e viene spontaneo chiedersi se questa terra si può avere a richiesta e senza pagar tasse, tanto è lo spreco con cui viene usata.
Le sue strade sono di stravagante ampiezza, le piazze maestosamente movimentate,
le case enormi, belle e allineate in blocchi uniformi
che si protendono in lontananza dritti come frecce.
I marciapiedi hanno la stessa larghezza di una normale strada europea, e sono sormontati da doppie arcate, sorrette da pilastri di pietra o da colonne.
Si può camminare da un capo all’altro di queste strade spaziose, sempre al riparo;
e tutto il percorso è costeggiato da negozi tra i più belli e da trattorie assai invitanti.
C’è una lunga vasta galleria, tutta luccicante di negozi perversamente attraenti, che ha il soffitto a vetri, alto lassù sulla testa, ed è pavimentata con marmi dalle tenui sfumature, che formano dei graziosi motivi;
e di notte, quando questo luogo brilla di luce ed è popolato da un’allegra, chiacchierona e ridanciana moltitudine di gaudenti, lo spettacolo è degno di essere visto.
Tutto è su vasta scala; gli edifici pubblici, ad esempio, oltre ad essere vasti,
sono d'architettura imponente
Le grandi piazze ospitano grandi statue in bronzo.
A Torino si deve leggere un bel po',
perché ha più librerie in rapporto alla superficie, che in qualsiasi altra città che io conosca.
Dal momento che tutto successe proprio il 12 agosto, ripropongo questo post già pubblicato l'8 febbraio 2013
The Terminal, Steven Spielberg e una foto che sembrava impossibile
Viktor Navaroski, cittadino del fittizio stato di Krakozhia, atterra a
New York mentre a casa sua è in atto un colpo di stato. Per questo le
autorità gli negano il visto d'ingresso, e lui per nove lunghi mesi
rimane bloccato in aeroporto senza poter mettere un piede fuori dal
JFK Impara un po' di inglese, stringe qualche amicizia, lavoricchia e
si innamora pure di una bella hostess, finché non riesce ad andare
finalmente a New York per realizzare una promessa fatta al padre:
ottenere l'autografo di Benny Golson, famoso sassofonista di jazz.
Viktor infatti rivela che il suo defunto padre, grande appassionato
di jazz, dopo aver letto su un giornale ungherese del 1958 la storia
della "Foto di Harlem", per quarant'anni ha inseguito l'autografo dei
cinquantasette jazzisti ritratti, e prima di morire li ha ottenuti
tutti tranne uno: quello di Benny Golson. Completare la collezione del
padre è diventata per Viktor un impegno d'onore, ed è la ragione che lo
ha spinto a volare fin negli Stati Uniti.
Questa, detta con parole mie, la trama del film di Spielberg che francamente non può annoverarsi tra i suoi migliori.
ma contiene un piccolo segreto che a parte i fanatici jazzomani, sono
in pochi a conoscere: la storia della "Foto di Harlem" non è stata
una trovata dello sceneggiatore. I cinquantasette jazzisti sono stati
davvero ritratti tutti insieme ad Harlem il 12 agosto del 1958,
E' una storia intrigante che è stata raccontata in A GREAT DAY IN
HARLEM, un documentario che molti considerano il più bello mai girato
sulla storia del jazz.
Le cose erano andate così:
Robert Benton,
all'epoca editor della rivista Esquire, e che sarebbe diventato poi
sceneggiatore e regista, tra gli altri film, anche di Kramer contro
Kramer,
voleva trovare la maniera di celebrare la golden age del jazz,
periodo di massimo fulgore di quella musica che alla fine deglia anni
cinquanta traboccava di personalità stratosferiche, dai grandi
pionieri come Armstrong, ai leader di big bands come Duke Ellington,
ai boppers agli esponenti del cool jazz, tutti giganti del calibro di
Miles Davis, Sonny Rollins, Thelonius Monk, Charlie Mingus e compagnia
bella.
Pensò di chiamare Art Kane,
fino ad allora giovane art director appassionato di jazz, che mai
aveva immaginato di diventare fotografo professionista, e Kane se ne
uscì con un'idea folle: riuniamo tutti i jazzisti disponibili, e
scattiamo loro una bella fotografia. Tutti sapevano che sulla
categoria dei musicisti non si poteva fare molto affidamento:
nottambuli, indisciplinati e del tutto privi dell'idea di puntualità, sembrava impossibile riuscire a raccoglierne tanti contemporaneamente, ma Benton decise che valeva la pena di provarci.
Art Kane, non essendo un vero fotografo, non
disponeva di uno studio e pensò di organizzare
la sessione fotografica all'aperto, in una qualsiasi strada di Harlem.
Al Cotton club suonava
l'orchestra di Ellington, il mitico teatro Apollo nelle serate del
dilettante aveva permesso a tanti talentuosi musicisti di esibirsi per
la prima volta davanti ad un vero pubblico, insomma Harlem era lo
scenario ideale per una foto del genere. Nessuno ricorda più perché
proprio quell'angolo tra la diciassettesima e la centoventiseiesima,
davanti a quella brownstone color terra,
secondo qualcuno la strada era familiare perché c'era un alberghetto che
per pochi soldi dava vitto e alloggio
agli spiantati. E spiantati effettivamente i musicisti lo erano quasi
tutti.
L'appuntamento fu fissato per le dieci di mattina, altra follia
considerando
che questa era gente abituata ad esibirsi in jam sessions da un locale
all'altro andando avanti a suonare fino alle cinque del mattino. E a
New
York allora si suonava tutte le sante notti. Gerry Mulligan racconta
che fu subito affascinato dalla proposta ma fino all'ultimo rimase
praticamente certo che non si sarebbe mai potuta concretizzare. Invece,
com'è e come non è, e a dispetto di ogni ragionevole previsione, i
jazzisti convocati arrivarono tutti. Arrivò in tempo
anche Willi "the lion" Smith,
leggendario maestro dello stride
piano che nella foto ufficiale non compare perché proprio nel momento
dello scatto si era allontanato per pochi minuti. Con lui sarebbero
stati cinquantotto, come
l'anno in cui tutto questo succedeva. Ma nella foto ne sono stati
immortalati solo cinquantasette.
Un sogno a occhi aperti per qualsiasi appassionato: cinquantasette
solisti in un solo colpo, mostri sacri come Coleman Hawkins e Count
Basie, Lester Young, che qui è ritratto
con uno strano cappello piatto che lo faceva somigliare ad una via di
mezzo tra un torero e un prete, Sonny Rollins, all'epoca sassofonista
giovane ma già considerato un semidio,
che nonostante la fama l'anno successivo non esiterà ad abbandonare
tutto e tutti per esercitarsi in perfetta solitudine su un ponte
sull'East River. Gli ci vorranno due lunghi anni prima di sentirsi
pronto a tornare a suonare in pubblico.
Charlie Mingus, geniale e strafottente
e perfino Thelonious Monk,
il più impenetrabile di tutti, che qualche anno dopo durante una interminabile turnè australiana aprirà bocca soltanto una volta per chiedere "dove cavolo saranno questi fottutissimi canguri",
Dizzy Gillespie che mostra la lingua
e Gerry Mulligan con i suoi inconfondibili cortissimi capelli rossi
le due regine del pianoforte Marian McPartland e Mary Lou Williams .
Tutti allegri e contenti come studenti in gita scolastica, qualcuno con la macchina foto in mano.
Nei filmati a colori sembra di assistere alla preparazione della foto
di famiglia fuori dalla chiesa, subito dopo un matrimonio.
Di lì a poco si sarebbe fatta aperta la lotta per i diritti civili,
black is beautiful e I have a dream, Malcom X e Martin Luther King, ma
già qualcosa del nuovo orgoglio e della nuova consapevolezza di sè
trapela in questa foto formidabile, che Robert Benton ha
dichiarato avergli insegnato molto, e molto certamente più di quanto
avrebbe mai potuto immaginare.
Per Art Kane fu la pietra miliare che gli fece capire che cosa avrebbe finalmente fatto della sua vita:
Me ne venni fuori con questa idea oltraggiosa e l'ho vista prendere
corpo nel modo in cui l'avevo immaginata, guardare tutti quei musicisti
muoversi su quegli scalini nella
centoventiseiesima strada era magnifico. Ho capito in quel momento cosa
volevo
fare della mia vita. Volevo essere un fotografo
e per chi non sa che faccia avesse l'uomo per il cui autografo Viktor
Navaroski, cittadino di Krakozhia, vola fino a New York, signore e
signori ecco a voi