martedì 16 dicembre 2014

Di Louisiana ce n'è solo uno (ed è un peccato)



Knud Jensen, il sorridente  signore  nel quadro, era il  proprietario di una delle maggiori case editrici danesi. Appassionato collezionista d'arte, nel 1954 aveva acquistato una tenuta sulle rive dell'Øresund.

















La casa era disabitata da tempo e il parco era ridotto  a sterpaglie, ma la proprietà si affacciava da un lato sul mare


 e  dall'altro su un piccolo lago,  il panorama era magnifico e il signor Jensen aveva capito che quello era  il posto che aveva sempre cercato per costruire  un piccolo museo per l'arte moderna danese. Anche il nome  gli era sembrato poetico:  Louisiana. Era stato scelto dal vecchio proprietario  che  aveva avuto tre mogli che si chiamavano  tutte e tre  Louise, e Jensen decise di mantenerlo. Suonava bene.
Fece restaurare la vecchia casa 














e incaricò gli architetti Vilhelm Wohlert e Jorgen Bo di aggiungere un nuovo corpo di fabbrica che doveva essere completamente  immerso nel bosco.

 Ne venne fuori  una   struttura bianca, adagiata sul terreno  e molto articolata,


col  soffitto in listoni di legno e pareti completamente vetrate  che d'estate si aprono sul parco. Pochissimi i  muri,  lasciati a vista o semplicemente dipinti di bianco ma non intonacati, e una profusione eccezionale di  opere d'arte dappertutto, dentro e fuori, tanto che non sempre ci si raccapezza su qual è il dentro e quale il fuori. 
















Arrivando al museo se ne percepisce solo  una piccola parte, ci si incammina attraverso  gallerie che si svelano man mano, in un gioco continuo ed emozionante tra   Picasso

















e Giacometti, 

Calder













Moore,













o Richard Serra














con la sensazione stranissima e piacevole di galleggiare in mezzo agli alberi.  
Quando i piedi non ce la fanno più ci si ferma a sfogliare un libro in  uno dei tanti salottini con le finestre affacciate sul mare.

















D'estate c'è chi prende il sole sul prato e  chi non ha paura di tuffarsi  nelle acque sempre frescoline  dell'Øresund, 



e  nessuno grida al sacrilegio perché il Louisiana è un museo vivo,  fatto per essere adoperato.   Come diceva Jensen:
 «il museo esiste soprattutto per il pubblico. Che deve poter conoscere e giudicare l'arte contemporanea. Noi cerchiamo di renderlo possibile esponendo le opere in un ambiente che stimoli la voglia di vivere sempre nuove esperienze. Con gioia e felicità».   

domenica 7 dicembre 2014

Copenhagen - il Tivoli


Johan Georg Carstensen Bernhard nasce il 31 agosto 1812. Suo padre è  un diplomatico e così la sua infanzia trascorre in medio oriente fino a che  viene spedito a studiare a Copenhagen. Si arruola tra le guardie reali danesi, termina la carriera militare col grado di  tenente e  per qualche anno se ne va in giro per il mondo.  Ha ventisette anni quando torna a vivere a  Copenhagen e diventa editore di giornali popolari, che   pubblicizza organizzando balli feste e spettacoli pirotecnici  a cui i suoi concittadini partecipano  con  entusiasmo, e comincia a farsi strada in lui l'idea di realizzare un grande parco di divertimenti alla maniera dei  Vauxhall Pleasure Gardens di Londra.  Se funzionano lì, perchè mai  non dovrebbero funzionare  anche a Copenhagen? Ottiene abbastanza facilmente dal re Cristiano VIII un appezzamento di quattordici ettari di  terreno  e una licenza valida cinque anni per costruire il suo parco,  che già immagina pieno di giostre  per bambini e attrazioni per tutta la famiglia, e poi  ristoranti, giardini  fioriti e teatri. Ci saranno concerti e pantomime,  tantissime luci sparse per tutto il parco, e all'ora di chiusura i fuochi artificiali illumineranno tutta la città.
Il 15 agosto  1843 si inaugura a Vestervold, appena fuori dalle mura della città,  il Tivoli and Vauxhall  che in breve  diventerà per tutti semplicemente Tivoli.  La  zona è  presidiata dall'esercito, e il  governatore ha dato il benestare all'uso del suolo soltanto  a patto che tutte le strutture realizzate fossero leggere e avessero carattere temporaneo  per poterle demolire facilmente  in caso di guerra.  Quella prima stagione termina l'11 ottobre del 1843, e nei due mesi scarsi di apertura viene visitata da centosettantaquattromilaseicentonove persone. 
Come facilmente intuibile,  nessuna guerra lo ha minacciato,  le strutture leggere e temporanee hanno retto piuttosto bene  e dopo più di centosettant'anni il Tivoli gode ancora ottima salute anche se è un po' passatello e non può  certo  rivaleggiare con le miriadi di parchi di divertimenti ipertecnologici  nati  dopo di lui.
Però resta sempre l'attrazione  più popolare di tutta la Danimarca,  e ho letto che  ogni anno il 90 per cento dei turisti stranieri che passano per  Copenhagen  una capatina al Tivoli non se la lascia scappare.
Anche noi lo abbiamo visitato, e  più di una volta. La  prima fu  nel 1970 durante il nostro  primo viaggio a  Capo Nord. O meglio: durante il nostro primo viaggio. Punto. 



Quella prima volta l'abbiamo visto in agosto  e adesso invece  era  novembre, ma a parte gli addobbi natalizi e qualche ripulita qua e là, non mi è sembrato molto cambiato.


































Mancava soltanto   la banda di ragazzini vestiti da soldatino del Dofo Crem  che nel 1970  aveva sfilato al  suono della marcia Radetzki, e a cui attribuisco la responsabilità delle lacrime inevitabili  che mi fanno sempre un po' vergognare  ad ogni concerto di capodanno







LinkWithin

Related Posts Widget for Blogs by LinkWithin